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Dall’Italia: ANPC commemora il 77°anniversario dell’eccidio di Malga Zonta PDF Stampa E-mail
Lunedì 16 Agosto 2021 17:55

Dall’Italia: ANPC commemora il 77°anniversario dell’eccidio di Malga ZontaSi è svolta a Passo Coe (TN) la tradizionale cerimonia per commemorare l'eccidio di Malga Zonta quando nella notte del 12 agosto 1944 diciotto persone furono fucilate dai reparti delle SS. Di seguito il testo dell’orazione ufficiale tenuta da Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo Storico del Trentino. Il 77°anniversario dell’eccidio di Malga Zonta. Dalla storia, l’impegno. “Dalla storia, l’impegno” è la scritta che capeggia sull’invito a partecipare a questa manifestazione per le onoranze ai caduti di Malga Zonta. Vorrei provare ad argomentare intorno al nesso inscindibile che lega la storia, l’eccidio compiuto dai nazisti quel 12 agosto 1944, all’insegnamento che siamo chiamati a trarne in termini di impegno civile. Attualissime, in questo contesto, le parole dello storico francese Marc Bloch. Nel suo manoscritto Apologia della storia osservò che al problema dell’utilità e della legittimità della storia "vi è interessata, e per intero, la nostra civiltà occidentale. Essa infatti, a differenza di altre civiltà, ha sempre chiesto molto dalla propria memoria [...]Ogni volta che le nostre tristi società, in perpetua crisi di sviluppo, prendono a dubitare di se stesse, paiono domandarsi se abbiano avuto ragione ad interrogare il loro passato, o se l'abbiamo interrogato bene." Società che guardano al passato, ad un passato che si allontana inesorabilmente, un passato che viene interrogato. Marc Bloch, fondatore della rivista “Annales d’histoire” e professore di storia medievale alla Sorbonne, destituito dall’insegnamento con l’avvento della Repubblica collaborazionista di Vichy, faceva parte della Resistenza francese.Compose il manoscritto “Apologia della storia” nei mesi precedenti il suo arresto. Non riuscì ad ultimarlo perché venne fucilato dai nazisti a Lione il 16 giugno 1944, due mesi prima l’eccidio di Malga Zonta. Non deve essere un esercizio retorico andare a quella tragica alba del 12 agosto 1944. Lo possiamo fare oggi con maggiore consapevolezza e rigore, arricchiti dalle ricerche e dagli studi su quell’episodio, ma in generale su di una interpretazione che è andata consolidandosi negli ultimi decenni e che ha inquadrato correttamente il periodo storico: il fascismo e le sue guerre, la Seconda guerra mondiale, l’occupazione nazista, il multiforme e complesso movimento di liberazione.Per decenni, ma è inevitabile che fosse così, la legittimazione della Resistenza passava tramite la valorizzazione esclusiva della sua componente armata, dal contributo che le formazioni partigiane diedero alla vittoria sul nazismo. Progressivamente si è dato spazio e rilievo alle “motivazioni” e al valore della scelta. Arrivando a riconoscere che dentro il fenomeno resistenziale non vi fossero solo le motivazioni della guerra di liberazione nazionale, sicuramente quella più unificante e condivisa, ma anche quelle di una guerra civile, condotta contro i fascisti, e una guerra di classe, che provava a modificare profondamente la situazione economica e sociale. In anni più recenti, grazie alla disponibilità di fonti documentarie fino ad allora inedite, si è iniziato a considerare il punto di vista, gli obiettivi, le strategie dell’occupante nazista e dei fascisti di Salò suoi alleati “subalterni”.In questa direzione un risultato importante è stata la pubblicazione online dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia. Un progetto coordinato proprio da Paolo Pezzino e realizzato dall’Istituto Parri in collaborazione con l’ANPI, che ha permesso di censire oltre 5000 episodi e tra questi l’eccidio di Malga Zonta parte di quella che i nazisti denominarono “Operazione Belvedere”. Nello specifico l’autore della scheda è lo storico Lorenzo Gardumi, al quale dobbiamo ricerche e lavori davvero esaustivi e i cui risultati sono stati restituiti nell’esposizione permanente, promossa dal Comune di Folgaria, dal Museo storico del Trentino e curata da Fernando Larcher, presso l’ex Corpo di guardia sede del “Parco Museo Malga Zonta Base Tuono”.Stragi ed eccidi di cui è stata ricostruita la dinamica degli eventi, lo specifico contesto territoriale, l’appartenenza alle diverse fasi di guerra, ma anche l’identità delle vittime e degli esecutori.Sono proprio gli esecutori, i responsabili, che nella maggior parte delle memorie di quegli eventi sono scomparsi paradossalmente dalla scena. Al punto che le dispute, le polemiche, le laceranti divisioni hanno avuto come oggetto il campo delle vittime e l’individuazione di coloro che hanno causato, di fatto, la strage o l’eccidio: le formazioni partigiane con la loro presenza e le loro azioni.E’ successo anche per Malga Zonta. Quante volte si è discusso delle due celebri istantanee scattate da un militare tedesco. Perché si è posta così scarsa attenzione ad un particolare: un militare tedesco armato fotografato di spalle, appena intravisto.Quel soldato “scomparso” dalla scena del delitto era parte di un sistema che legittimava la violenza, le esecuzioni, i processi sommari.Malga Zonta e l’Operazione Belvedere appartengono a quelle operazioni di ripulitura del territorio in prossimità delle linee difensive e dei percorsi di ritirata. Non fu azione di rappresaglia, ma di bonifica.I responsabili dell’eccidio appartenevano alla II e alla III Compagnia del Gruppo operativo Bürger, un’unità delle SS specializzata nella lotta partigiana. Prima di operare nel nord Italia erano intervenuti nel Caucaso e in Ucraina. Nello specifico sono i marescialli maggiori, tutti decorati in modo specifico per il rastrellamento dell’11 e del 12 agosto: Wilhelm Bertram, Karl Guggenberger, Fritz Heuer, Willy Miehe e Heinrich Wolf. Di età compresa tra i 40 e i 45 anni sono tutti di “razza ariana” come precisano i documenti conservati al Bundesarchiv di Coblenza. Oltre alle loro compagnie vennero impiegati, si parla di alcune migliaia di uomini, il 263° Battaglione Orientale, il IV Reparto operativo mobile della Marina di stanza a Lavarone, la V Compagnia del Corpo di Sicurezza Trentino e i non identificati reparti della Guardia Nazionale Repubblicana. L’Operazione Belvedere, che ha come obiettivo la bonifica del territorio della “zona libera” di Posina, è parte dei grandi rastrellamenti nei territori in cui operava la Divisione garibaldina Garemi: dal Pasubio al Monte Grappa, che si svolsero tra l’agosto e il settembre 1944. Secondo fonti tedesche, complessivamente, caddero in combattimento 894 partigiani, 170 subirono invece un “trattamento speciale”, cioè torturati e poi uccisi, 232 fatti prigionieri. In quell’estate 1944 le brigate della Divisione Garemi dovettero affrontare, oltre agli effetti devastanti dell’azione tedesca, due crisi: una crisi di crescita delle formazioni, dovuta all’afflusso quotidiano di giovani renitenti, alla necessità di armarli, rifornirli e inquadrarli e una crisi politico-militare, non senza tensioni, che portò all’avvicendarsi al comando tra Sergio (Attillio Andreetto) ad Alberto (Nello Boscagli). Il primo militare, il secondo appartenente al Partito comunista. Cosa ci facevano gli uomini di Bruno Viola, il Marinaio, a Malga Zonta? Attendevano un lancio di armi e rifornimenti da parte degli alleati. Erano poco armati e molti di loro, probabilmente, erano appena entrati o stavano entrando nelle fila dei partigiani.Sappiamo che l’accanita resistenza contro i reparti tedeschi comportò l’uccisione di 3 militari e il ferimento di altri 4. Sappiamo che gli spari e l’esplosione delle bombe a mano misero in movimento gli altri gruppi stanziati nei dintorni di Passo Coe, che trovarono così la via di fuga dal rastrellamento come ci ha raccontato Lamberto Ravagni, Libero, che ci ha lasciato nel dicembre 2019. La sua è stata nel tempo una presenza costante e partecipata a questa nostra cerimonia. Oltre al gruppo che aveva trovato rifugio nella Malga, in una notte dalla pioggia incessante, vennero radunati altri 15 prigionieri. frutto del rastrellamento. Venne fatta una selezione: furono risparmiati alcuni giovanissimi e anziani malgari. Uno di loro, Antonio Fabrello, 17 anni, finì in un campo di concentramento tedesco e tornò in Italia pesando 35 chili.La storia e la testimonianza di Antonio, usata polemicamente, in realtà tende ad arricchire ancora di più il significato storico. Scampò la morte quel giorno perché i suoi indumenti erano sporchi di letame. Le stesse celebri foto non sono un santino laico della Resistenza, sono documenti che rendono evidente ciò che fu la guerra, come venivano perpetuate le azioni antipartigiane da parte dei reparti tedeschi. Un’immagine che ci trasmette insieme i segni di coraggio e di terrore, di sfida e di rassegnazione, che ci spinge ad interrogarci di più sulle biografie di quei quattordici partigiani e di quei tre civili, scrutando i loro volti, cercando di capire.
Come la storia del “Marinaio” Bruno Viola che guidava il distaccamento di partigiani, che nella foto esprime coraggio e senso di sfida. Egli è appena ventenne ed è già segnato dalla dura esperienza in montagna. Consapevole di ciò che sta facendo nel momento in cui grida la propria rabbia, non importa se in nome dell’Italia, di Stalin o di tutte e due. Ha guidato il suo gruppo in quell’episodio di guerra partigiana, avverte probabilmente la responsabilità per ciò che accadrà dopo pochi minuti.Vi è anche il viso spaurito del diciottenne di Posina Dino Dal Maso, giunto nella zona di Passo Coe per accompagnare le bestie che gli erano state affidate.Qualcuno potrebbe riconoscere i volti degli altri: quello degli altri due malgari di Posina Gildo De Pretto e Angelo Losco, quello dei partigiani Marcello Barbieri (nome di battaglia Elica) di Valdagno, Antonio Cocco, Angelo Dal Medico, Giuseppe Marcante e Domenico Zordan di Monte di Malo, Romeo Cortina (nome di battaglia Roma) di Castelgomberto, Giocondo De Vicari (nome di battaglia Baldo) di Costabissara, Gelsomino Gasparoni, Eupremio Marchet e Mario Scortegagna di S. Vito di Leguzzano, Angelo Maistrello di Marano, Giobatta Tessaro (nome di battaglia Zampa) di Malo. Tra i volti qualcuno potrebbe riconoscere quello di Fernando Dalla Fontana di Arsiero, la cui vicenda particolare è stata ricostruita con rigore e sensibilità da Ezio Maria Simini. Dalla Fontana apparteneva ad una banda di sbandati e di renitenti che operavano nella zona tra i Fiorentini, Campiluzzi e Tonezza: si spacciavano per partigiani e continuavano ad operare razzie contro i proprietari di case e di malghe. La presenza di quelle bande, così com’è confermato da numerose testimonianze, contribuiva a rendere difficili i rapporti tra le formazioni partigiane inquadrate nella divisione Garemi e la popolazione. Si decise così di neutralizzare questa banda di sbandati. Sembra che fu la stessa pattuglia di Bruno Viola a eseguire l’ordine di cattura emanato dal comandante Germano Baron “Turco”: furono individuati come appartenenti alla banda Remo Fabrello e, appunto, Fernando Dalla Fontana. Vennero portati a Malga Zonta per essere interrogati e, presumibilmente, processati. Nella notte Fabrello riuscì a scappare, mentre Dalla Fontana rimasto alla Malga chiese di essere messo alla prova e di entrare nelle file dei partigiani. Fu mandato a cercare di convincere il resto della banda a consegnare la refurtiva. Non ci riuscì, ma tornò tra i partigiani ed entrò nel gruppo di Viola. La sua storia di partigiano durò pochi giorni, forse un solo giorno. Ottenne anche un nome di battaglia: Soli. Nella notte tra l’11 e il 12 agosto alloggiò con i suoi nuovi compagni a Malga Zonta, partecipò a quel drammatico tentativo di resistenza e venne fucilato insieme agli altri. Pur considerando la diversità dei percorsi biografici, delle esperienze, delle motivazioni, possiamo trovare alcuni elementi che gli accomunano. Innanzitutto erano giovani. Quindici dei 17 fucilati di Malga Zonta hanno meno di 24 anni. Due di loro, Marcello Barbieri e Giocondo De Vicari, non hanno compiuto ancora i 18 anni. Appartenevano al popolo, alle classi subalterne (come si usava dire qualche decennio fa) che dal fascismo ottennero solo di essere fagocitare da parole d’ordine belliciste e da cartoline precetto. Erano accomunati dal rifiuto di quelle guerre volute dal fascismo. Che aveva spedito intere generazioni in Albania, in Francia, nel nord Africa, in Grecia, in Russia. Che aveva portato, come ulteriore drammatica conseguenza, 600 mila militari italiani internati nei lager nazisti oltre ai tantissimi fatti prigionieri dagli alleati. Ed è probabile che dietro il loro rifiuto, che portò all’andare in montagna con i partigiani o anche più semplicemente a sfuggire alla chiamata alle armi della Repubblica sociale, vi fossero le vicende dolorose che avevano sconvolto direttamente i nostri territori, le nostre comunità meno di trent’anni prima. Con la guerra combattuta tra il 1915 e il 1918. Mettiamoci all’ascolto di quelle voci e di quelle motivazioni. Così come suggerì Piero Calamandrei nel suo celebre discorso pronunciato a Milano il 26 gennaio 1955 nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria. Di quel discorso rivolto agli studenti milanesi nell’ambito di un ciclo di lezioni sulla Costituzione, che proprio Calamandrei aveva contribuito a scrivere, noi ricordiamo frequentemente la forza e l’efficacia delle parole conclusive: “Se voi volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.”
Ma quel discorso dovremmo rileggerlo interamente, collocandolo nel proprio tempo. Siamo a metà degli anni Cinquanta, in una situazione piena di difficoltà legate alla ricostruzione, al clima politico-ideologico, all’ostilità che si manifestava diffusamente contro la Resistenza e la sua eredità politica, culturale e morale. All’inizio del discorso Calamandrei argomenta in modo accalorato contro l’indifferenza e il rifiuto della politica. E proprio parlando della nostra Costituzione afferma: “la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità...” Bisogna saper ascoltare quelle voci vicine e lontane. Perché esse ci parlano, disse Calamandrei, “dietro ogni articolo di questa Costituzione”, che oltre ad essere il fondamento della nostra vita democratica e civile è anche un testamento: “un testamento di centomila uomini”. Credo che questo sia uno dei validi motivi per venire a Malga Zonta. Ascoltare quelle voci, rinnovare il nostro impegno, affermare e riconoscersi nei valori della nostra Costituzione e in tutto ciò che essa rappresenta e potrà rappresentare.

da ANPC Nazionale

 

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